C'era una volta una favola nera, ambientata in una qualsiasi città del
mondo, dove vive una piccola comunità di famiglie. Un mondo
apparentemente normale dove silente cova il sadismo dei padri e la
rabbia dei figli, diligenti e disperati.
RECENSIONE
di Federico Pontiggia
La
terra non è più dell’abbastanza, non è più media, ma mediana, interseca
l’abbondanza e la mancanza. E’ una terra di villini familiari e
sconosciuti insieme, in cui la crisi è quotidiana, ovvero non è crisi.
All’opera seconda, i fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo non se la
raccontano più, come nel pur pregevole esordio La terra dell’abbastanza (2018), ma ci sbattono in faccia le loro, ovvero le nostre, Favolacce, un po’ favole e un po’ parolacce, un po’ Rodari e un po’ King, in cui il turpiloquio è il (mal)vivere oggi.
Siamo nella periferia sud di Roma come ovunque, le famiglie sono
contigue ma crescendo non c’è prossimità, si perde la vicinanza
solidale, sperimentale ed euristica che fu, ed è ancora, tra i banchi di
scuola: gli adulti sono autoritari, mai autorevoli, i bambini
soccombono ma non s’arrendono, la rabbia alimenta il cortocircuito,
rimpolpa la disperazione, chiama la fine.
L’inferno è qui e ora, ma non divampa, implode, un grado dopo l’altro
cuoci senza accorgertene, impercettibile e inesorabile, di più
ineluttabile: sadici i padri, prostrate le madri, terrorizzati e
terroristi i figli, rien ne va plus.
In Concorso alla 70esima Berlinale, i fratelli D’Innocenzo, che scrivono
e dirigono, aprono in medias res nella terra di tutti e nessuno, e
prendono il polso alla malattia del sopravvivere contemporaneo: la
bisettrice non è solo tra abbondanza e mancanza, ma falcia la
sperequazione scolastica, sociale, sì, politica. A scuola non c’è
educazione ma istruzione, non ci sono piccoli umanisti ma piccoli
chimici, a casa non c’è cultura, e sottocultura proletaria, ma censo
piccoloborghese, c’è tutto e c’è niente, c’è il litorale cementificato e
la palude bonificata.
C’è la speranza, sì o no? C’è la poesia spoetata di Pasolini, e la
necessità di morire, c’è la parafrasi di Fofi, c’è prima e dopo uno
sguardo irriducibile, che spia, stigmatizza, violenta perfino, ma non
giudica.
Del resto, non servirebbe: la realtà inquadrata a mezz’altezza, di
sghembo, scorciata, sfocata, lisa e perfino rubata (grande lavoro del
dop Paolo Carnera) è autoassolvente, autoriproducente, non si può
sconfiggerla, perché è già vinta. I D’Innocenzo prendono,
consapevolmente o meno, volontariamente o no, dal primo Lanthimos, da
Seidl, da Haneke, da Garrone, sopra tutto da Todd Solondz e dalle
comunità lasche, le identità piagate, la psicosi diffuse e il genocidio
intellettuale distillano il veleno, sintetizzano la molecola del
disagio, del no future.
E lo fanno dando pieno potere all’immagine – ottime scenografie di Paola
Peraro, Emita Frigato e Paolo Bonfini, bella sintassi nel montaggio di
Esmeralda Calabria – facendone il precipitato dell’immaginario, e non
più comunemente viceversa: entriamo, perlustriamo, conosciamo quella
comunità come se fosse un Ufo, solo che è “normale”.
Ancora, c’è speranza?
Non nella famiglia del padre padrone Bruno Placido (Elio Germano,
super), che rovina la vita a sé per massacrarla agli altri, fino
all’auto-sabotaggio; non nell’insegnamento del professor Bernardini
(Lino Musella), che dispensa formule e progetti distruttivi; non
altrove, dove si cerca di contrarre il morbillo senza intendere il
contagio esistenziale, dove si dà alla luce senza via di scampo.
Eppure, nel male pervasivo la speranza c’è. Non una, ma doppia.
C’è la speranza artistica, quella del primato del racconto sulla storia,
della possibilità di ripartire, di continuare, o forse no, il diario
interrotto, di riannodare le vite spezzate, se non delle persone, dei
personaggi. E’ la speranza autoriale, quella poetica del cantastorie e
quella meccanica del dispositivo, è la speranza narrativa, quella antica
dell’aedo e della comunità attorno al fuoco. E' la libertà di inventare
che esorcizza la circolarità di un destino infame.
Ma ce n’è anche un’altra di speranza, anche questa antica, e forse
perduta, pasoliniana, e forse ancora possibile. Sta nell’affetto di un
padre che non ha nulla e ha tutto per un figlio che non ha nulla ma ha
un padre, sta nella non disparità, nella non divaricazione di materiale e
culturale, ovvero nella non prevalenza del censo, e financo status,
piccoloborghese. Amelio Guerrini (Gabriel Montesi, giusto), che fa il
cameriere, si masturba en plein air e non gli manca niente perché ha
niente, e Geremia Guerrini (Justin Korovkin), il figlio con i vestiti
del padre, la cinta passata due volte e il cervello fino. Non c'è
differenza tra ciò che si ha e ciò che si è (si sa) in Amelio e Geremia.
Nel loro amore, che non è solo vita ma sopravvivenza, storia e racconto
coincidono, favola salvifica e parolaccia prosaica si corroborano: amor
vincit omnia. O, per dirla con Pasolini, “ho nostalgia della gente
povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare
quel padrone”.
Su questa scia, ma non solo, i fratelli D'Innocenzo sono una delle cose più belle capitate al cinema italiano in anni recenti.